Associazione Pugliese per la Retinite Pigmentosa - ODV
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Aggiornamenti scientifici dall'Assemblea dei Soci:

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anno diciassettesimo n. 655                              18 giugno 2023

Aggiornamenti scientifici dall’Assemblea dei Soci

    Domenica 28 Maggio 2023, l’Associazione Pugliese per la Retinite Pigmentosa O.D.V. ha svolto presso il Padiglione CHINI, nell’Aula di Clinica Medica del Policlinico di Bari, l’assemblea dei soci.

    Questa riunione è stata la prima in presenza dopo quelle svolte in modalità virtuale a causa dell’emergenza  legata al Coronavirus ed è stata battezzata, con nostro immenso piacere, dalla presenza della piccola Francesca, paziente affetta da Amaurosi Congenita di Leber, sottoposta a luglio 2022 presso la Clinica Oculistica del Policlinico di Bari a terapia genica, il primo caso trattato in Puglia.

    Del nostro Comitato Scientifico Regionale erano presenti il Prof. Matteo Bracciolini, Presidente Onorario e Fondatore della nostra Organizzazione, e il Dr. Ugo Procoli, Presidente effettivo del nostro C.S.R..

 

    Di seguito, vi riportiamo la relazione scritta sugli aggiornamenti scientifici del Dr. Ugo Procoli.

 

          (Inizio relazione)

 

    Questa relazione è anche aggiornata agli ultimi congressi cui ho partecipato. La settimana scorsa si è svolto il Congresso Nazionale della Società Italiana di Scienze Oftalmiche (SISO), che ha dedicato una sezione alle distrofie retiniche e alla terapia genica. La Clinica Oculistica del Policlinico di Bari ha avuto l’onore di essere individuata come referente nella regione Puglia nell’ambito delle malattie genetiche della Società di Oftalmologia Genica, una società che si occupa proprio della terapia genica nelle patologie retiniche.

    La Retinite Pigmentosa fa parte di un gruppo molto più ampio di patologie che sono denominate distrofie retiniche ereditarie; la RP è il gruppo principale di queste patologie e sono numerosi i geni, individuati quali responsabili delle cause.

 

    Determinati geni sono comuni in alcune di queste forme: questo dato è importante perché anche per ciò che riguarda la terapia; la possibilità di sperimentare e di realizzare un trattamento genico per un determinato gene può alle volte consentire l’utilizzo in due patologie formalmente diverse. Vi ricordo che negli anni la progressione dello studio dei geni che sono responsabili delle varie forme di patologie delle distrofie retiniche è andato via via crescendo; si è iniziato da poco più di dieci geni intorno agli anni ’90, fine anni ’80; attualmente, nell’ambito delle distrofie retiniche ereditarie il numero di geni identificati e mappati si aggira tra i duecentocinquanta e i trecento. Questo consente sicuramente un ampliamento degli studi clinici e permette di conoscere sempre meglio i meccanismi patogenetici delle singole forme. Si calcola che, sempre nell’ambito delle distrofie retiniche ereditarie, i pazienti affetti non vedenti o ipovedenti si aggirano intorno ai due milioni in tutto il mondo e sicuramente il gruppo principale è rappresentato dalla Retinite Pigmentosa. Però, ci sono anche altre patologie che interessano la regione maculare o semplicemente il senso cromatico che comunque hanno lo stesso meccanismo, cioè c’è un’alterazione a livello dei fotorecettori o di qualche particolare tipo di cellula retinica che determina poi comunque una sofferenza cellulare, che porta poi al danneggiamento o addirittura alla morte per proptosi della cellula stessa.

    Nell’ambito classificativo di queste forme, possiamo distinguere delle forme stazionarie e delle forme progressive perché ad esempio esiste la cecità notturna stazionaria, che in realtà è una forma benigna (non ha un’evoluzione in senso peggiorativo) e si contano forme progressive che sono molto più frequenti. Nell’ambito di queste ultime, abbiamo forme sindromiche e non sindromiche: le forme non sindromiche interessano esclusivamente l’apparato visivo; le forme sindromiche si associano ad altre alterazioni, la più frequente e conosciuta è la Sindrome di Usher in cui abbiamo contemporaneamente un vessamento dell’apparato visivo e dell’apparato acustico. Poi, a seconda della localizzazione del problema, possiamo distinguere forme prevalentemente a interessamento della macula, come ad esempio la Stargardt, forme in cui c’è l’associazione comune sia dei bastoncelli che dei coni o forme in cui ad esempio sono interessati, come nella Coroidemia, strati ancora più esterni.

    A complicare le cose, c’è che ciascuna patologia ha un’evoluzione che può essere diversa e la conoscenza dei geni può aiutare anche a capire quale possa essere il decorso. Se parliamo della Retinite Pigmentosa, non tutte le forme sono simili come evoluzione; ci sono delle forme più maligne che compaiono in età pediatrica e che portano più velocemente al danno cellulare e ci sono delle forme diagnosticate addirittura in età adulta in cui la prognosi è sicuramente migliore rispetto alle forme giovanili. Da qui l’importanza dell’indagine genetica, in quanto l’immagine del fondo oculare potrebbe non corrispondere all’evoluzione clinica della patologia: esistono, infatti, delle forme in cui c’è una rispessione notevole di pigmento e in realtà l’andamento è benigno e ci sono delle forme, come ad esempio la sine pigmento, che possono comunque avere un’evoluzione non buona. I test genetici stanno ovviamente prendendo piede in maniera preponderante, tuttavia ancora non siamo in grado di isolare il gene per tutte le forme di Retinite Pigmentosa. A seconda del territorio che andiamo a prendere in considerazione, questa percentuale varia tra il 30 e il 40% in cui ancora noi non riusciamo ad individuare o a mappare o isolare un determinato gene come sicuro fattore responsabile di quel quadro clinico e quindi abbiamo ancora un 40% di pazienti in cui l’indagine genetica risulta non chiara nella diagnosi; tuttavia, nel rimanente 60-70% attualmente possiamo individuare il gene e questo ci consente di inquadrare il paziente in una determinata forma clinica e quindi di fornirgli prospettive, seppure a lungo termine, da un punto di vista terapeutico.

 

    Quindi, perché un test genico è importante? È importante per la prevenzione perché in alcune forme noi possiamo attraverso l’analisi durante il periodo di gestazione della paziente vedere se ad esempio il nascituro abbia o meno la possibilità di sviluppare la malattia; può servire per la prognosi perché noi, individuando il tipo di gene, possiamo capire quale sarà l’evoluzione della malattia stessa; e, soprattutto, possiamo adesso, per ciò che riguarda l’RPE65, fornire anche una prospettiva dal punto di vista terapeutico. Tutto questo è stato possibile realizzarlo grazie ad un notevole sviluppo delle indagini genetiche. Voi sapete che prima si faceva l’indagine per un determinato gene, al massimo due, questi esami richiedevano anni, andavano inviati in laboratori specializzati, molto spesso appunto la risposta non era chiara e questo creava spesso anche sconforto e delusione nei pazienti; da ormai una quindicina, ventina d’anni sono state introdotte delle nuove tecniche di sequenziamento che consentono, in tempi relativamente più rapidi (sempre nel giro di qualche mese perché poi gli esami vanno anche interpretati dal genetista), di ottenere una mappatura di circa oltre cento geni e questo quindi permette un inquadramento della malattia molto più preciso.

 

    Quali sono le modalità di trattamento per la Retinite Pigmentosa? Abbiamo delle strategie di tipo gene-dipendente e delle strategie di tipo gene-indipendente. I principi su cui si basano le terapie gene-dipendenti sostanzialmente fanno capo a tre gruppi. Il primo è quello della supplementazione genica ed è quello che è stato applicato nel nostro caso alla piccola Francesca: in pratica, ci sono delle cellule che non funzionano bene e, attraverso l’inserimento di una copia sana e funzionante del gene mutato, noi andiamo a obbligare la cellula non funzionante a riprendere l’attività e quindi essa inizia a riprodurre la proteina prima non sintetizzata correttamente e questo determina la ripresa dell’attività funzionale da parte del soggetto; queste forme si adattano molto bene alle forme recessive e alle forme X-linked recessive: nell’Amaurosi Congenita di Leber, ma anche in altre forme ci sono degli studi avanzati, ad esempio nella cromatopsia o nella retinoschisi giovanile X-linked. Un’altra strategia può essere quella del silenziamento genico, cioè noi andiamo ad inibire il gene che funziona male nella speranza che comunque quella cellula riesca a sopravvivere e funzionare senza tale gene; anche in questo caso ci sono delle tecniche molto complesse che vengono, ad esempio, utilizzate per le forme autosomiche dominanti. La terza possibilità – ed è anche quella che sta prendendo molto più piede perché molto più avanzata e interessante da un punto di vista concettuale – è quella dell’editing genico, cioè noi andiamo in maniera specifica a interrompere l’espressione del gene mutato con delle particolari molecole di RNA o DNA che vanno ad attaccare il gene alterato, lo vanno a rompere, a distruggere, e in alcuni casi noi possiamo intervenire inserendo un nuovo pezzo di gene funzionante; sono ovviamente delle tecniche che vengono sperimentate quotidianamente in tutti i laboratori del mondo e che stanno dando da questo punto di vista, ancora su modelli animali, delle ottime prospettive, ma si pensa che il vero futuro della terapia genica sia ormai questo.

 

    Come possiamo trasferire il gene funzionante? Lo dobbiamo trasferire attraverso un vettore; questo vettore è in genere un vettore virale, è un vettore modificato, nel senso che non è un virus patogeno, e soprattutto deve essere un virus altamente in grado di infettare il tessuto dove vogliamo che agisca e deve facilmente trasmettere il codice corretto alla cellula danneggiata. Da questo punto di vista, esistono vari tipi di virus; quello che oramai è il più utilizzato è l’adenovirus associato, che ha per una serie di requisiti la capacità di trasportare molto bene il gene RPE65. Una delle problematiche che esiste in questo genere di terapia è che i geni non hanno tutti le stesse dimensioni: ci sono geni piccoli come quello dell’RPE65, ci sono anche geni cinquanta, sessanta volte più grandi del gene RPE65, per cui non è detto che il vettore sia in grado di trasportarli. Allora, l’adenovirus va benissimo per l’RPE65, ma non va bene per i geni molto, molto grandi. E anche qui si stanno sviluppando delle tecniche particolari che provvedano a trovare un vettore ancora più grande o, ancora, a rompere, a smontare il gene che deve essere introdotto, inserirlo attraverso il vettore e poi ricombinarlo all’interno della cellula infettata.

 

    Come rilasciamo questo virus, come lo facciamo penetrare nel tessuto? Abbiamo, per ciò che riguarda l’occhio, diverse possibilità. L’occhio è un organo privilegiato in quanto è poco soggetto alla risposta immunitaria del nostro organismo poiché è un sistema abbastanza chiuso, soprattutto la retina; anche i trapianti di cornea sono eseguiti con scarse problematiche da un punto di vista immunitario perché è un tessuto vascolare, quindi che non viene attaccato dal sistema immunitario del soggetto. E abbiamo sostanzialmente tre possibilità. Una è quella dell’iniezione intravitreale, già usata nella cura della Degenerazione Maculare senile, cioè all’interno del bulbo tra retina e cristallino c’è il corpo vitreo e noi, in maniera abbastanza semplicistica, iniettiamo un vettore, che si diffonde nel vitreo e dal vitreo va a infettare il tessuto retinico; questa tecnica ha dei vantaggi e degli svantaggi: il vantaggio è che va ad interessare un’ampia porzione, diciamo quasi tutta la porzione retinica; ha lo svantaggio, però, comunque di sottoporsi ad una reazione immunitaria perché lo spazio occupato è maggiore. L’altro sistema è quello dell’iniezione sottoretinica, che è quella che viene attualmente praticata nel trattamento dell’Amaurosi Congenita di Leber: andiamo con un ago a penetrare all’interno della retina e a inoculare la sostanza nello spazio sottoretinico in modo tale che agisca sui fotorecettori e sull’epitelio pigmentato retinico; il vantaggio è che ha una scarsissima reazione immunitaria perché è già penetrato all’interno della retina; lo svantaggio è che comunque noi possiamo andare a interessare un territorio localizzato di tutta la superficie retinica e in realtà lo facciamo a livello maculare; l’altro lato negativo è che per adottare questa tecnica dobbiamo comunque operare sul vitreo, cioè fare una vitrectomia per arrivare sulla retina stessa. Una terza possibilità che è allo studio attualmente è l’iniezione sottocoroidale, cioè si va attraverso la sclera, lo strato più esterno del bulbo oculare, a iniettare delle piccole quantità di virus che va ad interessare direttamente il tessuto retinico; in questo caso, agiamo dall’esterno.

    Oltre alla terapia genica, però, esistono anche delle terapie gene-indipendenti che sono rappresentate dal trattamento con le cellule staminali, in cui noi anche qui andiamo ad iniettare delle cellule che hanno delle potenzialità dal punto di vista riproduttivo e che possono interagire con il sistema dei fotorecettori e provvedere a sostituire o quantomeno migliorare la funzionalità di queste cellule stesse; anche questa via è una via che viene percorsa da un punto di vista sperimentale, però da un punto di vista pratico siamo sicuramente più indietro rispetto alla terapia genica.

 

    Esistono, ancora, degli altri trattamenti: innanzitutto, il trattamento optogenetico. Quest’ultimo si basa sul principio che noi abbiamo ancora delle cellule funzionanti all’interno del bulbo oculare che sono rappresentate da alcuni bastoncelli che vengono definiti dormienti, cioè che non sono stati alterati dal processo patologico ma che comunque normalmente non funzionano, non vengono chiamati in causa; dopo l’introduzione di particolari sostanze che vengono definite opsine, esse penetrano in queste cellule e si viene a riattivare attraverso i fotoni l’attività e la trasmissione dell’impulso nervoso; queste sono ricerche che stanno dando risultati molto promettenti, ma che da un punto di vista ancora pratico, clinico per il paziente, non hanno ancora risvolto realizzabile.

    E poi esistono dei reagenti che agiscono sulla cosiddetta neuroprotezione; anche qui siamo in studi sperimentali preclinici; sono sostanze neurotrofiche antiapoptotiche, cioè che rallentano o inibiscono la morte spontanea della cellula, o sostanze antiossidanti che ugualmente dovrebbero rallentare o bloccare il decorso della malattia; anche in questo caso, ci sono degli studi attualmente in corso pienamente attivi in cui però mancano ancora i risultati da un punto di vista clinico.

    Come ha sempre sottolineato il Prof. Bracciolini nel corso degli anni, le sperimentazioni precliniche non corrispondono poi all’utilizzo pratico della metodica per il paziente, alla possibilità di usufruirne, perché oltre agli studi concettuali preclinici poi si deve passare alla fase clinica in cui si deve dimostrare la sicurezza del farmaco, poi passare a dimostrare l’efficacia del farmaco e dopo si inizia nella fase 3 la vera e propria sperimentazione clinica, in cui si selezionano un certo numero di pazienti e si comincia a somministrare questo farmaco e a controllare quali siano i risultati ottenuti dal farmaco stesso; se tutto questo avviene regolarmente, nel giro di qualche anno il farmaco ha l’approvazione da parte degli organi competenti, che sono la FDA negli Stati Uniti e l’EMA in Europa, e il farmaco può essere messo in commercio. Trattandosi di malattie rare, trattandosi di patologie che hanno una prognosi infausta dal punto di vista funzionale, è chiaro che questi studi abbiano dei canali privilegiati ed anche delle autorizzazioni privilegiate, nel senso che se un farmaco mostra dei risultati corposamente promettenti, può avere un’introduzione in commercio molto più precoce rispetto ad altri farmaci per altre patologie.

 

    Tenete presente che attualmente esistono 253 studi al mondo in corso registrati sulla Retinite Pigmentosa: di questi studi, cento sono attivi, centodiciotto sono terminati o completi e cinque sono stati cancellati; la differenza con i 253 è data poi da studi di cui non si conosce quale sia lo stato dell'arte. Di questi 253, nove sono italiani, però quelli attivi sono solo due attualmente: uno riguarda lo studio in generale del genoma di pazienti affetti da Retinite Pigmentosa ed è gestito dal Ministero della Salute, quindi Roma; e poi invece c’è un gruppo di Pisa che si occupa delle malattie mitocondriali. Questi studi sono alle volte da un punto di vista epidemiologico, alle volte da un punto di vista preclinico, alle volte realmente clinico studi che richiedono tempo e risorse umane e ovviamente economiche, ma su cui c’è una pressione, un interesse notevole.

    Il fatto che si sia potuta trattare una patologia sia pur rarissima ha consentito di aprire un portone nell’ambito delle distrofie retiniche con la speranza che in tempi brevi altri geni possano essere utilizzati in maniera utile per i pazienti stessi. Nell’ambito di questa sperimentazione, che in realtà non è più una sperimentazione ovviamente perché il farmaco è oramai in commercio già da due anni, la Regione Puglia si è fatta carico del trattamento della nostra carissima Francesca.

    Francesca è giunta da noi in clinica con un sospetto di distrofia retinica, era stata già inquadrata da un altro specialista; una volta compreso che si trattava di una distrofia retinica con il nostro classico inquadramento – abbiamo eseguito gli esami elettrofunzionali, etc. etc. –, abbiamo avuto la necessità di completare il quadro con l’indagine genetica. E l’indagine genetica ha evidenziato la responsabilità dell’RPE65 in una condizione un po’ particolare di diadelismo, per cui ovviamente abbiamo informato i genitori della possibilità di questo tipo di trattamento; per quanto sia una terapia ormai approvata, questo ha creato dei dubbi o comunque del turbamento: da un lato, penso, in senso positivo di avere una possibilità. Tutto sommato, la diagnosi per loro è stata abbastanza ravvicinata al momento della proposta terapeutica, al contrario di altre forme in cui magari il paziente ha modo di somatizzare la propria condizione, informarsi, studiare; qui invece i tempi sono stati molto più ristretti, tenuto anche conto che si trattava di un minore e quindi anche da un punto di vista di coinvolgimento la situazione è stata molto più pressante.

    Ovviamente non è stata un’opzione semplice, nel senso che poter fare questo tipo di trattamento necessita di una serie di autorizzazioni formali del Centro che esegue questo trattamento, per cui, una volta avuta la possibilità di fare questo tipo di intervento, pur avendo sostanzialmente buona parte della strumentazione a disposizione perché in fin dei conti sono interventi che noi facciamo per altri motivi con relativa frequenza in Clinica, è chiaro che fare la terapia genica significhi anche avere dei requisiti strutturali riferiti alla conservazione del farmaco, allo smaltimento del farmaco una volta iniettato, che richiedevano una compartecipazione di tutta un’altra serie di strutture: la farmacia ospedaliera, che si è dovuta munire di frigoriferi particolari; il trasporto del farmaco dalla Germania a Bari; la stessa Direzione Sanitaria, che ha dovuto dare una serie di autorizzazioni o comunque premere perché fosse acquistato quel determinato frigorifero. Devo dire che tutti hanno collaborato, anche perché ovviamente l’idea di poter compartecipare a migliorare la vita di un bambino è fondamentale per tutti.

    L’intervento è stato eseguito dal Prof. Boscia. Dal punto di vista emotivo, è stata un’operazione particolare, che egli non dimenticherà perché questa ad esempio è una terapia one shot, cioè può essere praticata un’unica volta, quindi se qualcosa va male durante l’intervento non si può fare nient’altro, punto e si chiude.

    Poi ci sono state le problematiche del Covid: il giorno prima dell’intervento è uscita la positività. Tutta una serie di complicazioni quando il farmaco era ormai arrivato. A maggior ragione possiamo allietarci per il traguardo raggiunto.



    di Maria Colucci



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