Domenica 28 Maggio 2023, l’Associazione Pugliese per la
Retinite Pigmentosa O.D.V. ha svolto presso il Padiglione CHINI, nell’Aula di
Clinica Medica del Policlinico di Bari, l’assemblea dei soci.
Questa riunione è stata la prima in presenza dopo quelle svolte in modalità virtuale a causa dell’emergenza legata al Coronavirus ed è stata
battezzata, con nostro immenso piacere, dalla presenza della piccola Francesca,
paziente affetta da Amaurosi Congenita di Leber, sottoposta a luglio 2022
presso la Clinica Oculistica del Policlinico di Bari a terapia genica, il primo
caso trattato in Puglia.
Del nostro Comitato Scientifico Regionale erano presenti il Prof. Matteo Bracciolini, Presidente Onorario
e Fondatore della nostra Organizzazione, e il Dr. Ugo Procoli, Presidente
effettivo del nostro C.S.R..
Di seguito, vi riportiamo la relazione scritta sugli aggiornamenti scientifici del Dr. Ugo Procoli.
(Inizio relazione)
Questa relazione è
anche aggiornata agli ultimi congressi cui ho partecipato. La settimana scorsa
si è svolto il Congresso Nazionale della Società Italiana di Scienze Oftalmiche
(SISO), che ha dedicato una sezione alle distrofie retiniche e alla terapia
genica. La Clinica Oculistica del Policlinico di Bari ha avuto l’onore di
essere individuata come referente nella regione Puglia nell’ambito delle
malattie genetiche della Società di Oftalmologia Genica, una società che si
occupa proprio della terapia genica nelle patologie retiniche.
La Retinite
Pigmentosa fa parte di un gruppo molto più ampio di patologie che sono
denominate distrofie retiniche ereditarie; la
RP è il gruppo principale di queste patologie e sono numerosi i geni,
individuati quali responsabili delle cause.
Determinati
geni sono comuni in alcune di queste forme: questo dato è importante perché
anche per ciò che riguarda la terapia; la
possibilità di sperimentare e di realizzare un trattamento genico per un
determinato gene può alle volte consentire l’utilizzo in due patologie
formalmente diverse. Vi ricordo che negli anni la progressione dello studio dei
geni che sono responsabili delle varie forme di patologie delle distrofie
retiniche è andato via via crescendo; si è iniziato da poco più di dieci geni intorno agli anni ’90, fine anni
’80; attualmente, nell’ambito delle distrofie retiniche ereditarie il numero di
geni identificati e mappati si aggira tra i duecentocinquanta e i trecento.
Questo consente sicuramente un ampliamento degli studi clinici e permette di
conoscere sempre meglio i meccanismi patogenetici delle singole forme. Si
calcola che, sempre nell’ambito delle distrofie retiniche ereditarie, i
pazienti affetti non vedenti o ipovedenti si aggirano intorno ai due milioni in
tutto il mondo e sicuramente il gruppo principale è rappresentato dalla
Retinite Pigmentosa. Però, ci sono anche altre patologie che interessano la
regione maculare o semplicemente il senso cromatico che comunque hanno lo
stesso meccanismo, cioè c’è un’alterazione a livello dei fotorecettori o di
qualche particolare tipo di cellula retinica che determina poi comunque una
sofferenza cellulare, che porta poi al danneggiamento o addirittura alla morte
per proptosi della cellula stessa.
Nell’ambito
classificativo di queste forme, possiamo distinguere delle forme stazionarie e
delle forme progressive perché ad esempio esiste la cecità notturna
stazionaria, che in realtà è una forma benigna (non ha un’evoluzione in senso
peggiorativo) e si
contano forme progressive che sono molto più
frequenti. Nell’ambito di queste ultime,
abbiamo forme sindromiche e non sindromiche: le forme non sindromiche
interessano esclusivamente l’apparato visivo; le forme sindromiche si associano
ad altre alterazioni, la più frequente e conosciuta è la
Sindrome di Usher in cui abbiamo contemporaneamente un vessamento
dell’apparato visivo e dell’apparato acustico. Poi, a seconda della
localizzazione del problema, possiamo distinguere forme prevalentemente a interessamento della macula, come
ad esempio la Stargardt, forme in cui c’è l’associazione comune sia dei
bastoncelli che dei coni o forme in cui ad esempio sono interessati, come nella
Coroidemia, strati ancora più esterni.
A complicare le cose,
c’è che ciascuna patologia ha un’evoluzione che può essere diversa e la
conoscenza dei geni può aiutare anche a capire quale possa essere il decorso.
Se parliamo della Retinite Pigmentosa, non tutte le forme sono simili come
evoluzione; ci sono delle forme più maligne che compaiono in età pediatrica e che
portano più velocemente al danno cellulare e ci sono delle forme diagnosticate
addirittura in età adulta in cui la prognosi è sicuramente migliore rispetto
alle forme giovanili. Da qui l’importanza dell’indagine genetica, in quanto
l’immagine del fondo oculare potrebbe non corrispondere all’evoluzione clinica
della patologia: esistono, infatti, delle forme in cui c’è una rispessione
notevole di pigmento e in realtà l’andamento è benigno e ci sono delle forme,
come ad esempio la sine pigmento, che possono comunque avere
un’evoluzione non buona. I test genetici stanno ovviamente prendendo piede in
maniera preponderante, tuttavia ancora non siamo in grado di isolare il gene
per tutte le forme di Retinite Pigmentosa. A seconda del territorio che andiamo
a prendere in considerazione, questa percentuale varia tra il 30 e il 40% in cui ancora noi non riusciamo ad individuare o a
mappare o isolare un determinato gene come sicuro fattore responsabile di quel quadro clinico e quindi abbiamo ancora un 40% di pazienti in cui l’indagine genetica risulta non chiara
nella diagnosi; tuttavia, nel rimanente 60-70%
attualmente possiamo individuare il gene e questo ci consente di inquadrare il
paziente in una determinata forma clinica e quindi di fornirgli prospettive,
seppure a lungo termine, da un punto di vista terapeutico.
Quindi, perché un
test genico è importante? È importante per la prevenzione perché in alcune
forme noi possiamo attraverso l’analisi durante il periodo di gestazione della
paziente vedere se ad esempio il nascituro abbia o meno la possibilità di
sviluppare la malattia; può servire per la prognosi perché noi, individuando il
tipo di gene, possiamo capire quale sarà l’evoluzione della malattia stessa; e,
soprattutto, possiamo adesso, per ciò che riguarda l’RPE65, fornire anche una
prospettiva dal punto di vista terapeutico. Tutto questo è stato possibile
realizzarlo grazie ad un notevole sviluppo delle indagini genetiche. Voi sapete
che prima si faceva l’indagine per un determinato gene, al massimo due, questi
esami richiedevano anni, andavano inviati in laboratori specializzati, molto
spesso appunto la risposta non era chiara e questo creava spesso anche
sconforto e delusione nei pazienti; da ormai una quindicina, ventina d’anni
sono state introdotte delle nuove tecniche di sequenziamento che consentono, in
tempi relativamente più
rapidi (sempre nel
giro di qualche mese perché poi gli esami vanno anche interpretati dal
genetista), di ottenere una mappatura di circa
oltre cento geni e questo quindi permette un inquadramento della malattia molto più preciso.
Quali sono le
modalità di trattamento
per la Retinite Pigmentosa? Abbiamo delle strategie
di tipo gene-dipendente e delle strategie di tipo gene-indipendente. I principi
su cui si basano le terapie gene-dipendenti sostanzialmente fanno capo a tre
gruppi. Il primo è quello della supplementazione genica ed è quello che è stato
applicato nel nostro caso alla piccola
Francesca: in pratica, ci sono delle cellule che non funzionano bene e,
attraverso l’inserimento di una copia sana e funzionante del gene mutato, noi
andiamo a obbligare la cellula non funzionante a riprendere l’attività e quindi
essa inizia a riprodurre la proteina prima
non sintetizzata correttamente e questo determina la
ripresa dell’attività funzionale da parte del soggetto; queste forme si
adattano molto bene alle
forme recessive e alle forme X-linked
recessive: nell’Amaurosi Congenita di Leber,
ma anche in altre forme ci sono degli studi avanzati, ad esempio nella
cromatopsia o nella retinoschisi giovanile X-linked. Un’altra strategia può
essere quella del silenziamento genico, cioè noi andiamo ad inibire il gene che
funziona male nella speranza che comunque quella cellula riesca a sopravvivere
e funzionare senza tale gene; anche in
questo caso ci sono delle tecniche molto complesse che
vengono, ad esempio, utilizzate
per le forme autosomiche dominanti. La terza
possibilità – ed è anche quella che sta prendendo molto più piede perché molto
più avanzata e interessante da un punto di vista concettuale – è quella
dell’editing genico, cioè noi andiamo in maniera specifica a interrompere
l’espressione del gene mutato con delle particolari molecole di RNA o DNA che
vanno ad attaccare il gene alterato, lo vanno a rompere, a distruggere, e in alcuni
casi noi possiamo intervenire inserendo un nuovo pezzo di gene funzionante;
sono ovviamente delle tecniche che vengono sperimentate quotidianamente in
tutti i laboratori del mondo e che stanno dando da questo punto di vista,
ancora su modelli animali, delle ottime prospettive, ma si pensa che il vero
futuro della terapia genica sia ormai questo.
Come possiamo
trasferire il gene funzionante? Lo dobbiamo trasferire attraverso un vettore;
questo vettore è in genere un vettore virale, è un vettore modificato, nel
senso che non è un virus patogeno, e soprattutto deve essere un virus altamente
in grado di infettare il tessuto dove vogliamo che agisca e deve facilmente
trasmettere il codice corretto alla cellula danneggiata. Da questo punto di
vista, esistono vari tipi di virus; quello che oramai è il più
utilizzato è l’adenovirus associato, che ha per una serie di requisiti la capacità di trasportare molto bene il gene RPE65. Una
delle problematiche che esiste in questo genere di terapia è che i geni non hanno
tutti le stesse dimensioni: ci sono geni
piccoli come quello dell’RPE65, ci sono anche geni cinquanta, sessanta volte
più grandi del gene RPE65, per cui non è detto che il vettore sia in grado di
trasportarli. Allora, l’adenovirus va benissimo per l’RPE65, ma non va bene per
i geni molto, molto grandi. E anche qui si stanno sviluppando delle tecniche
particolari che provvedano a trovare un vettore ancora più grande o, ancora, a
rompere, a smontare il gene che deve essere introdotto, inserirlo attraverso il
vettore e poi ricombinarlo all’interno della cellula infettata.
Come rilasciamo
questo virus, come lo facciamo penetrare nel tessuto? Abbiamo, per ciò che
riguarda l’occhio, diverse possibilità. L’occhio è un organo privilegiato
in quanto è poco soggetto alla risposta immunitaria del nostro organismo poiché
è un sistema abbastanza chiuso, soprattutto la
retina; anche i trapianti di cornea sono eseguiti con scarse problematiche da un punto di vista immunitario perché è un
tessuto vascolare, quindi che non viene attaccato dal sistema immunitario del
soggetto. E abbiamo sostanzialmente tre possibilità. Una è quella
dell’iniezione intravitreale, già usata nella cura della Degenerazione Maculare senile, cioè all’interno del bulbo tra retina e cristallino c’è il
corpo vitreo e noi, in maniera abbastanza semplicistica, iniettiamo un vettore,
che si diffonde nel vitreo e dal vitreo va a
infettare il tessuto retinico; questa tecnica ha dei vantaggi e degli
svantaggi: il vantaggio è che va ad interessare un’ampia porzione, diciamo
quasi tutta la porzione retinica; ha lo svantaggio, però, comunque di
sottoporsi ad una reazione immunitaria perché lo spazio occupato è maggiore.
L’altro sistema è quello dell’iniezione sottoretinica, che è quella che viene
attualmente praticata nel trattamento
dell’Amaurosi Congenita di Leber: andiamo con
un ago a penetrare all’interno della retina e a inoculare la sostanza nello
spazio sottoretinico in modo tale che agisca sui fotorecettori e sull’epitelio
pigmentato retinico; il vantaggio è che ha una scarsissima reazione immunitaria
perché è già penetrato all’interno della retina; lo svantaggio è che comunque
noi possiamo andare a interessare un territorio localizzato di tutta la
superficie retinica e in realtà lo facciamo a livello maculare; l’altro lato
negativo è che per adottare questa tecnica dobbiamo comunque operare sul
vitreo, cioè fare una vitrectomia per arrivare sulla retina stessa. Una terza
possibilità che è allo studio attualmente è l’iniezione sottocoroidale, cioè si
va attraverso la sclera, lo strato più esterno del bulbo oculare, a iniettare
delle piccole quantità di virus che va ad interessare direttamente il tessuto
retinico; in questo caso, agiamo dall’esterno.
Oltre alla terapia
genica, però, esistono anche delle terapie gene-indipendenti che sono
rappresentate dal trattamento con le cellule staminali, in cui noi anche qui
andiamo ad iniettare delle cellule che hanno delle potenzialità dal punto di
vista riproduttivo e che possono interagire con il sistema dei fotorecettori e
provvedere a sostituire o quantomeno migliorare la funzionalità di queste
cellule stesse; anche questa via è una via che viene percorsa da un punto di
vista sperimentale, però da un punto di vista pratico siamo sicuramente più
indietro rispetto alla terapia genica.
Esistono, ancora,
degli altri trattamenti: innanzitutto, il trattamento optogenetico.
Quest’ultimo si basa sul principio che noi abbiamo ancora delle cellule
funzionanti all’interno del bulbo oculare che sono rappresentate da alcuni
bastoncelli che vengono definiti dormienti, cioè che non sono stati alterati
dal processo patologico ma che comunque normalmente non funzionano, non vengono
chiamati in causa; dopo l’introduzione di particolari sostanze che vengono
definite opsine, esse penetrano in queste cellule e si viene a riattivare
attraverso i fotoni l’attività e la trasmissione dell’impulso nervoso; queste
sono ricerche che stanno dando risultati molto
promettenti, ma che da un punto di vista ancora pratico, clinico per il
paziente, non hanno ancora risvolto realizzabile.
E poi esistono dei
reagenti che agiscono sulla cosiddetta neuroprotezione; anche qui siamo in
studi sperimentali preclinici; sono sostanze neurotrofiche antiapoptotiche,
cioè che rallentano o inibiscono la morte spontanea della cellula, o sostanze
antiossidanti che ugualmente dovrebbero rallentare o bloccare il decorso della
malattia; anche in questo caso, ci sono degli studi attualmente in corso
pienamente attivi in cui però mancano ancora i risultati da un punto di vista
clinico.
Come ha sempre
sottolineato il Prof. Bracciolini nel corso degli anni, le
sperimentazioni precliniche non corrispondono poi all’utilizzo pratico della
metodica per il paziente, alla possibilità di usufruirne, perché oltre agli
studi concettuali preclinici poi si deve passare alla fase clinica in cui si deve
dimostrare la sicurezza del farmaco, poi passare a dimostrare l’efficacia del
farmaco e dopo si inizia nella fase 3 la vera
e propria sperimentazione clinica, in cui si selezionano un certo numero di pazienti e si comincia a somministrare questo farmaco e a controllare quali siano
i risultati ottenuti dal farmaco stesso; se tutto questo avviene regolarmente,
nel giro di qualche anno il farmaco ha l’approvazione da parte degli organi
competenti, che sono la FDA negli Stati Uniti e l’EMA in Europa, e il farmaco
può essere messo in commercio. Trattandosi di malattie rare, trattandosi di
patologie che hanno una prognosi infausta dal punto di vista funzionale, è
chiaro che questi studi abbiano dei canali privilegiati ed anche delle autorizzazioni privilegiate, nel senso che se
un farmaco mostra dei risultati corposamente promettenti, può avere
un’introduzione in commercio molto più precoce rispetto ad altri farmaci per
altre patologie.
Tenete presente che
attualmente esistono 253 studi al mondo in corso registrati sulla Retinite
Pigmentosa: di questi studi, cento sono attivi, centodiciotto sono terminati o
completi e cinque sono stati cancellati; la differenza con i 253 è data poi
da studi di cui non si conosce quale sia lo stato dell'arte. Di questi 253, nove sono italiani, però quelli attivi
sono solo due attualmente: uno riguarda lo studio in generale del genoma di
pazienti affetti da Retinite Pigmentosa ed è gestito dal Ministero della
Salute, quindi Roma; e poi invece c’è un gruppo di Pisa che si occupa delle
malattie mitocondriali. Questi studi sono alle volte da un punto di vista
epidemiologico, alle volte da un punto di vista preclinico, alle volte
realmente clinico studi che richiedono tempo e risorse
umane e ovviamente economiche, ma su cui c’è una pressione, un interesse
notevole.
Il fatto
che si sia potuta trattare una patologia sia pur rarissima ha consentito di
aprire un portone nell’ambito delle distrofie retiniche con la speranza che in
tempi brevi altri geni possano essere utilizzati in maniera utile per i
pazienti stessi. Nell’ambito di questa sperimentazione, che in realtà non è più
una sperimentazione ovviamente perché il farmaco è oramai in commercio già da
due anni, la Regione Puglia si è fatta carico del trattamento della nostra
carissima Francesca.
Francesca è giunta da
noi in clinica con un sospetto di distrofia retinica, era stata già inquadrata
da un altro specialista; una volta compreso che si trattava di una distrofia
retinica con il nostro classico inquadramento – abbiamo eseguito gli esami
elettrofunzionali, etc. etc. –, abbiamo avuto la necessità di completare il
quadro con l’indagine genetica. E l’indagine genetica ha evidenziato la responsabilità
dell’RPE65 in una condizione un po’ particolare di diadelismo, per cui
ovviamente abbiamo informato i genitori della possibilità di questo tipo di
trattamento; per quanto sia una terapia ormai approvata, questo ha creato dei
dubbi o comunque del turbamento: da un lato, penso, in senso positivo di avere
una possibilità. Tutto sommato, la diagnosi per loro è stata abbastanza
ravvicinata al momento della proposta terapeutica, al contrario di altre forme
in cui magari il paziente ha modo di somatizzare la propria condizione,
informarsi, studiare; qui invece i tempi sono stati molto più ristretti, tenuto
anche conto che si trattava di un minore e quindi anche da un punto di vista di
coinvolgimento la situazione è stata molto più pressante.
Ovviamente non è
stata un’opzione semplice, nel senso che poter fare questo tipo di trattamento
necessita di una serie di autorizzazioni formali del Centro che esegue questo
trattamento, per cui, una volta avuta la possibilità di fare questo tipo di
intervento, pur avendo sostanzialmente buona parte della strumentazione a
disposizione perché in fin dei conti sono interventi che noi facciamo per altri
motivi con relativa frequenza in Clinica, è chiaro che fare la terapia genica
significhi anche avere dei requisiti strutturali riferiti alla conservazione
del farmaco, allo smaltimento del farmaco una volta iniettato, che richiedevano
una compartecipazione di tutta un’altra serie di strutture: la farmacia
ospedaliera, che si è dovuta munire di frigoriferi particolari; il trasporto
del farmaco dalla Germania a Bari; la stessa Direzione Sanitaria, che ha dovuto
dare una serie di autorizzazioni o comunque premere perché fosse acquistato
quel determinato frigorifero. Devo dire che tutti hanno collaborato, anche
perché ovviamente l’idea di poter compartecipare a migliorare la vita di un
bambino è fondamentale per tutti.
L’intervento è stato
eseguito dal Prof. Boscia. Dal punto di vista emotivo, è stata un’operazione
particolare, che egli non dimenticherà perché questa ad esempio è una terapia
one shot, cioè può essere praticata un’unica volta, quindi se qualcosa va male
durante l’intervento non si può fare nient’altro, punto e si chiude.
Poi ci sono
state le problematiche del Covid: il giorno prima dell’intervento è uscita la
positività. Tutta una serie di complicazioni quando il farmaco era ormai
arrivato. A maggior ragione possiamo allietarci per il traguardo raggiunto.