"Tre dei quattro
figli hanno la Retinite Pigmentosa: coppia canadese fa il giro del mondo prima
che perdano la vista": è questa la notizia che ha colpito molto una
persona con RP, che in una lettera, pubblicata su “Il Fatto Quotidiano”, ha
voluto raccontare la sua infanzia stupenda “anche senza giro del mondo”. Prima
di leggere l’articolo, un’esortazione: ogni tanto chiudete gli occhi e riscoprite
che la voglia di vivere e cercare la vita è ancora lì, nonostante tutto.
(Inizio articolo)
Sono affetto da Retinite
Pigmentosa. Diagnosticata in modo definitivo a dieci anni, ma ne ero preda già
prima.
Mi chiedo, pur nel rispetto
del dolore e del terrore dei genitori, che si vedono ben tre figli ammalati,
cosa mi fa riflettere in tutto ciò. Forse perché noi siamo in quattro: io e mio
fratello con RP, una sorella portatrice sana, una senza ereditarietà. Mio padre
operaio, mia madre donna di servizio presso famiglie ricche a Torino, una volta
appresa la notizia della malattia hanno fatto quello che potevano, per me la
cosa migliore.
Mio padre ha continuato a
lavorare come un matto alla Fiat, perdendo pure un occhio sul lavoro, oltre che
la salute in generale. Mia madre, dopo un breve tentativo di inserimento nel
’71 presso una scuola normale, su consiglio altrui ci iscrisse – prima mio
fratello, poi io – dopo due anni all’Istituto per Ciechi di Torino.
Intanto si lavora, si va in
collegio, da piccoli passavamo le estati fra Torre Pellice nel pinerolese e
Acri in provincia di Cosenza. Mio padre sabaudo, mia madre meridionale, ci
facevano girare come d’uso fra i parenti che allargavano le braccia delle loro
famiglie e della disabilità visiva se ne infischiavano.
Nipoti eravamo e tali
venivamo trattati. Passavamo dalla bagna cauda ai cannelloni ripieni, dalla
frittura dolce piemontese alla soppressata e alle melanzane cosentine. Mare e
montagna.
In Piemonte niente
televisione, i nonni ci portavano ai giardini valdesi, infatti Torre Pellice è
terra valdese, ci compravano soldatini per le nostre battaglie sulla ghiaia del
cortile, quanti ne abbiamo persi per la nostra cecaggine… Giocavamo con aerei
di polistirolo, puntualmente finiti sui pini più alti e addio aerei. Un piccolo
cinema in piazza che ricordo come un miraggio, film impensabili per dei bimbi.
Messa domenicale, sulle giostrine dopo che mio fratello si ruppe il naso, i
miei nonni non si sognarono neppure di limitarci le nostre incursioni nei
giochi di ferro senza protezione, ci sorvegliavano solo un po’ di più per metterci
in guardia in caso di pericolo.
Sento ancora il profumo del
treno cento porte, l’arrabbiatura di mia madre quando ho lanciato una scarpa
dal finestrino mentre mi accompagnava dai nonni sabaudi. Colori verdi delle
vallate, il timbro della posta che confinava con la nostra camera da letto
nella casa estiva dei nonni paterni. Il mercato coperto. Andare in bagno nel
cortile con la turca, inesistente il bagno interno.
Poi si passava dal treno
cento porte al treno del Sud. Uno sopra l’altro, pacchi, viaggi pieni di rumore
di ferraglia, e guai a voler andare in bagno con tutta la gente sdraiata nei
corridoi, che non poteva permettersi la prenotazione e prendeva d’assalto i
vagoni come veniva. Ma ci si passava il sedile a turno, si scambiavano panini
all’olio, con il pomodoro, frutta. Più che viaggio in treno, per noi bimbi era
un casino, un’avventura da Far West.
Più di una volta mio padre mi
ha sollevato verso il finestrino a mia madre, che correva a prendere i posti mentre
il treno aveva appena raggiunto la banchina di Porta Nuova, giusto quelle
quattro ore prima della partenza serale. Le stazioni notturne, piene di luci,
passavano come alberi di Natale ad agosto.
Il bigliettaio si guardava
bene dal passare. Quando arrivavamo a Paola per cambiare per Cosenza, una
festa, come se avessimo superato una prova di resistenza alle ore infinite per
arrivare, come al solito, in ritardo… altro che freccia rossa. La casa della
nonna, l’acqua razionata nelle ore giornaliere più calde. I vari zii, molti
ciechi anche loro, nelle loro belle case, con le tavole imbandite. Poi il mare
di Acri, spiagge enormi, mare enorme, cielo enorme. Pasta fatta in casa,
gnocchi e tagliatelle, corone di peperoncini rossi e verdi che ho imparato a sopportare
da piccolo. L’estate era una baraonda, non sapevi più di chi eri figlio, eri un
po’ di tutti.
Quando cadevamo, qualche
lacrima, un cerotto, un bacio e via verso altre cadute. Andavo anche nei
cantieri con uno zio che installava ascensori per una ditta, la
Shindler, che avrei conosciuto durante la carriera sulle barriere. Mia nonna
vedova da anni, con la sua veste sempre scura, sembrava una madonna nera. Poi
anche vacanze in Puglia da amici di fabbrica di mio padre, con figli di chi ci
ospitava, con costruzione di aquiloni fatti volare fra i filari di ulivi e
fichi, altro mare, altri cibi, altri odori.
Cari genitori, non
affannatevi, vi prego, in un giro taumaturgico più che altro per voi; i vostri
figli nonostante la perdita terribile, si spera il più graduale possibile,
della vista non smetteranno di adorare il mondo. Ma non è attraverso la vostra
angoscia che lo potranno fare, oppure attraverso i vostri occhi, ma attraverso
la loro anima, attraverso la vostra guida amorevole, ma non come un ultimo
viaggio.
La vista è una cosa
meravigliosa e insostituibile. Ma la vita ha anche altri colori, sapori e
avventure in serbo per i vostri figli, dovete solo asciugarvi le lacrime e
crederci. Non si può ridurre tutto ad un anno, c’è una vita intera. Un giorno i
vostri figli vi faranno vedere un mondo che non immaginavate neppure, e voi
continuerete a raccontare il pezzo che vedrete per loro. Mi piacerebbe molto
che leggeste queste righe.
Un abbraccio da un bimbo che
continua a vedere la sua infanzia non come un lutto o attraverso la perdita di
vista, ma una grande festa e qualche bernoccolo.
(Fine articolo)