Sa tenere milioni
di persone con l’orecchio appiccicato alla radio ad ascoltare le sue cronache
di calcio e regala, a chi non può vedere, l’ineffabile emozione di seguire una
partita con gli “occhi di dentro”. Venerdì 3 Dicembre alle ore 17:00,
all’Auditorium “O. Tamburi” della Mole Vanvitelliana di Ancona, il Museo Omero
organizza una grande giornata di calcio e di riflessione sul racconto sportivo
con alcuni dei massimi protagonisti.
L’ospite
principale sarà Francesco Rèpice, radiocronista della
Rai per il calcio, che - scrivono gli organizzatori - possiede la rara capacità
di far “vedere” il gioco più popolare anche a chi non possiede l’uso della
vista.
Per questa sua
pregevole capacità verrà premiato dal Museo Omero e dalla Consulta Regionale
per la disabilità della Regione Marche con una scultura dal titolo
“Radiovisione”, appositamente realizzata da Felice Tagliaferri.
Alla giornata
parteciperanno, nel ruolo di intervistatori, altri due giornalisti sportivi,
Andrea Carloni, Presidente dell’Unione della Stampa
Sportiva Italiana, e Paolo Papili, radiocronista di
Radio Tua.
Riportiamo di
seguito l’intervista tratta dal “Corriere Adriatico”.
Francesco Rèpice, un talento naturale o frutto di tanto esercizio?
«Una lunga
pratica: conosco bene il mondo del calcio, per averlo giocato e per averlo
frequentato da tifoso. Non ho gareggiato moltissimo, sono un calciatore
frustrato, ma ho frequentato tutte le curve d’Italia, a tifare la Roma. Poi, fin da
adolescente, cronista per una radio privata, in Calabria, seguivo il Rende. Quando
giocava in casa, mi appostavo sul balcone, affacciato sul campo, di una signora
che avevo persuaso a ospitarmi. Per trasmettere in diretta, mi attaccavo alla
sua rete telefonica e mi invitava a pranzo in famiglia, prima del fischio
d’inizio. È stata una buona scuola: le partite del Milan si commentano da sole;
per quelle di serie C1, più lente e noiose, devi sfoderare grinta, altrimenti
l’ascoltatore ti molla».
Ma insomma, radiocronista
si nasce o si diventa?
«Si diventa,
credo. Sandro Ciotti diceva che per farlo bene, si deve portare sulle spalle
uno zaino pieno di parole, una valigia con più sinonimi possibile. La fluidità
di racconto, alla radio, dipende dalla ricchezza del lessico, per trovare la
parola nel preciso momento in cui ti serve. Per farlo, leggi di tutto, dai
romanzi alla pubblicità, alle scritte sui muri». Sono un pescatore di polpi in
apnea, il mio vero mestiere. Ho il fiato lungo».
Potendo scegliere,
radiocronaca o cronaca televisiva?
«Non ho dubbi: la
radio. La TV
lobotomizza lo spettatore, toglie senso critico, lo costringe all’immobilità.
La radio ti insegue ovunque e puoi scegliere se farti inseguire, mentre fai
altre cose. La TV
esclude, la radio ti permette di partecipare anche alla vita degli altri».
I suoi modelli?
«Tanti: il grande
Ciotti, Provenzali, Cucchi... e soprattutto una donna, Nicoletta Grifoni. Per
me, la più grande radiocronista, non solo tra le donne. E poi, Victor Ugo Morales,
il commentatore uruguaiano che ha saputo trasmettere emozioni grandissime, come
quando ha raccontato la vittoria dell’Argentina sull’Inghilterra, ai quarti di
finale del Mondiale 1986,
in Messico. Non solo con le parole, anche con sospiri e
versi irriproducibili. Ha gridato le prodezze di Maradona: “da che pianeta sei
venuto?”. Un alieno, anche lui».
L’esperienza più
emozionante?
«È legata a un
ricordo triste: in Brasile nel 2013, alla Confederations Cup, dove facevo solo
il commento tecnico, seconda voce accanto a Riccardo Cucchi. La notte del 14 Giugno,
pochi mesi dopo la morte di mia madre, mi annunciarono che mio padre era
mancato. Il 14 Giugno dell’anno dopo, ai Mondiali, ancora in Brasile, da prima
voce commentavo Italia-Inghilterra».
I suoi miti?
«Con mio zio
Rocco, morto da partigiano a Cuneo, Maradona: un esempio per i giovani. Sempre
con i più deboli, ha preso posizione e non ha mai nascosto le debolezze: la sua
vita insegna ai ragazzi quanto è facile cadere nella dipendenza».
Venerdì riceverà
un premio del Museo per non vedenti. Lunga vita alle Paralimpiadi?
«Per me, Olimpiadi
a pieno titolo per tutti. Gli atleti paralimpici sono più forti di tutti gli
altri».